Medea in tredici volte a per diciassette volte b
Entrare nella scrittura di Medea in Tredici volte A per Diciassette volte B significa stare, per un tempo molto denso, all’interno di un labirinto di oscuri stupori. Non mi interessa, qui, spiegare affinità e divergenze tra la Medea di Damiana Guerra e la Medea di Euripide, Seneca, Grillparzer o Anouilh: lascio le analisi di letteratura comparata a chi ha più strumenti di me.
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Entrare nella scrittura di Medea in Tredici volte A per Diciassette volte B significa stare, per un tempo molto denso, all’interno di un labirinto di oscuri stupori. Non mi interessa, qui, spiegare affinità e divergenze tra la Medea di Damiana Guerra e la Medea di Euripide, Seneca, Grillparzer o Anouilh: lascio le analisi di letteratura comparata a chi ha più strumenti di me. Come ogni labirinto, questa storia in cui nulla è come ci si aspetterebbe ha bisogno, sì, di strumenti di navigazione per essere attraversato, ma non certo dei rassicuranti e simmetrici parametri del raccontare per come siamo abituati a immaginarlo. Sul palco agiscono quattro simulacri: una donna, che ha il nome della prima lettera dell’alfabeto, un uomo, che ha il nome della seconda lettera dell’alfabeto, e altri due esseri umani, che hanno i nomi di due numeri dispari.
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