Quattro mollette blu made in China - G. Gallo

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Deserto e “oscurità”, per sondare “l’eterna dolorosa vicenda del Vuoto”. Un vuoto “a perdere” che attraversa i rapporti umani e che è peso che forse solo la vanagloria della poesia potrà alleggerire. È una sfida, dunque, “di dare un volto al tu (e) misurarsi con la responsabilità di condividere con l’altro nient’altro che il nulla...”?
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Alla fine si accorse d’essere vuoto. 
Un boccale di birra senza birra. 
Buio e vuoto. Un armadio senza vestiti. 
Una finestra senza panorama. (Le strade erano finite, pag. 17)

Deserto e “oscurità”, per sondare “l’eterna dolorosa vicenda del Vuoto”. Un vuoto “a perdere” che attraversa i rapporti umani e che è peso che forse solo la vanagloria della poesia potrà alleggerire. È una sfida, dunque, “di dare un volto al tu (e) misurarsi con la responsabilità di condividere con l’altro nient’altro che il nulla...”? Forse! Certamente è una sfida per chi sa ascoltare e aprirsi all’incontro, per chi ha voglia di entrare nello sguardo del poeta che ha visto, attraversando il mondo, il suo frantumarsi e il suo perdersi fino al possibile ritorno al caos. Noi non sappiamo fino a che punto riusciremo a entrarci, costretti come siamo nella finitezza del vivere e del pensare, possiamo solo intravedere il punto più profondo del colloquio con l’ombra dell’altro, con gli uomini, la natura e il nostro tempo: ecco le motivazioni di fondo che hanno generato Le quattro mollette blu made in Cina. E non è senza una ragione che Giuseppe Gallo aggiusti il tiro in queste poesie, virando verso la predilezione del quotidiano, la forma quasi diaristica, la scelta di una lingua vicina alla prosa e un’articolazione dei dialoghi che regola il ritmo e misura le contraddizioni di quel reale che insegue il tracciato drammatico dell’omologazione postmoderna. La raccolta è uno squarcio su un album fotografico di famiglia, o meglio, una story-board: Victor è il marito di Mary, genitori di Jerry e Terry; a loro si affiancano altri pochi soggetti: lo Zio Nick, la cugina Flory, ecc. L’uso di nomi inglesi, oltre che essere un cedimento al plurilinguismo imperante, sembra anche sprigionare un aroma di larvata polemica… Comunque, l’uso di questo “globalismo linguistico” proietta sui protagonisti delle poesie anche un’aura di straniamento: il mondo che li contiene è un mondo alieno e il linguaggio che li definisce e li sovrasta è un linguaggio stranito e striato di surrealtà…

(Francesco Gallo)


Giuseppe Gallo è nato a San Pietro a Maida (CZ) il 28 luglio 1950 e vive a Roma. È stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. Negli anni Ottanta collabora con il gruppo di ricerca poetica “Fòsfenesi” di Roma. Delle varie “Egofonie”, elaborate dal gruppo, da segnalare Metropolis, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma. Delle varie pubblicazioni si ricordano Di fossato in fossato (Roma, 1983); Trasiti ca vi cuntu (Roma, 2016), con la giornalista RAI Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine. Arringheide. Na vota quandu tutti sti paisi… poema di 32 canti in dialetto calabrese (2018). Infine, il romanzo Vi lowo tutti (2021). È redattore della rivista di poesia “Il Mangiaparole” e, come pittore, ha esposto in varie gallerie italiane. 

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